Sentenza n. 141 del 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Grosseto nel procedimento penale a carico di A. U., con ordinanza del 9 giugno 2022, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 21 giugno 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 9 giugno 2022, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Grosseto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

1.1.– Il rimettente deve giudicare, in sede di giudizio abbreviato, della responsabilità penale di A. U., rinviato a giudizio per il delitto di rapina di cui all’art. 628, primo comma, cod. pen., per avere costretto due dipendenti di un supermercato a consegnargli la somma di dieci euro mediante l’uso di minaccia, consistita nelle frasi «se non mi date 10 euro torno con la pistola» e «ti spacco la testa».

Ritenuto che il fatto addebitato all’imputato sia provato dalle risultanze delle indagini, e che sia giuridicamente inquadrabile nella fattispecie di rapina anziché in quella di estorsione (non avendo le persone offese altra scelta se non quella di consegnare la somma richiesta, a fronte delle pressanti minacce proferite dall’imputato), il giudice a quo stima peraltro che sussistano gli estremi della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen., consistente, per quel che qui rileva, nell’avere l’agente, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità; circostanza applicabile anche, per costante giurisprudenza di legittimità, a reati plurioffensivi come la rapina, nei quali il patrimonio è soltanto uno dei beni giuridici che il legislatore ha inteso tutelare.

All’imputato è stata però correttamente contestata, prosegue il rimettente, la circostanza aggravante della recidiva reiterata e infraquinquennale, ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.; circostanza che ad avviso del giudice a quo deve anche essere concretamente applicata, dal momento che l’imputato ha riportato gravi condanne per delitti contro il patrimonio, la pubblica amministrazione e l’incolumità individuale, nonché per cessione di sostanze stupefacenti in un arco temporale che va dal 1994 all’ultima condanna irrevocabile, risalente al 2019. Inoltre, l’imputato ha manifestato la propria pericolosità sociale anche in epoca recente, nonostante abbia da poco concluso l’espiazione di altre pene detentive.

Né d’altronde, ad avviso del rimettente, potrebbe prescindersi dell’applicazione della circostanza aggravante della recidiva in funzione dell’esigenza di evitare all’imputato un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla gravità del fatto, «perché si tratterebbe di un espediente finalizzato a eludere il divieto normativo di cui all’art. 69, comma 4, c.p.».

L’esigenza di adeguare la pena all’effettivo disvalore del fatto giustificherebbe invece, ad avviso del giudice a quo, la dichiarazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva, tenuto conto dell’entità del minimo edittale di cinque anni di reclusione previsto dall’art. 628, primo comma, cod. pen. Una tale pena – anche ove si tenesse conto della riduzione connessa alla scelta del rito – sarebbe infatti «del tutto sproporzionata rispetto alla condotta commessa, consistita nel conseguimento di un profitto di dieci euro con pari danno per la parte offesa».

L’art. 69, quarto comma, cod. pen. precluderebbe tuttavia un tale esito: dal che la rilevanza delle questioni sollevate.

1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo rammenta anzitutto i numerosi precedenti di questa Corte con i quali la disposizione censurata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui vietava la prevalenza di altrettante circostanze attenuanti sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., sottolineando in particolare quelle pronunce che hanno riguardato circostanze espressive di una minore gravità del fatto (sono citate le sentenze n. 251 del 2012, n. 105 del 2014 e n. 205 del 2017).

A tali circostanze sarebbe assimilabile quella prevista dall’art. 62, numero 4), cod. pen., che parimenti presuppone una minore lesività di un delitto contro il patrimonio, o che comunque offende il patrimonio. Né rileverebbe che la circostanza in parola sia un’attenuante a effetto comune, alla luce di recenti pronunce di questa Corte relative all’art. 69, quarto comma, cod. pen., che hanno investito anche circostanze di tale natura (sono citate le sentenze n. 143 e n. 55 del 2021 e n. 73 del 2020).

Particolare significato assumerebbe proprio la sentenza n. 143 del 2021, relativa alla circostanza del fatto di lieve entità nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, in cui questa Corte ha sottolineato la peculiare funzione, svolta da tale attenuante, di mitigare – in rapporto alla minore gravità oggettiva del fatto – una risposta punitiva di eccezionale asprezza, incapace di adattarsi alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale. Analoghe considerazioni varrebbero, ad avviso del rimettente, per l’attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. in relazione al delitto di rapina, la cui pena minima di cinque anni di reclusione è anch’essa assai elevata, e il cui perimetro applicativo si estende a «una varietà di situazioni concrete anche molto dissimili in termini di offensività», con conseguente rischio che la pena in concreto irrogata risulti sproporzionata rispetto ai fatti di minore impatto lesivo. Un rischio che proprio l’attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. sarebbe chiamata a schermare, come risulterebbe anche dalla circostanza che l’art. 278 del codice di procedura penale attribuisce eccezionalmente rilievo a tale attenuante in deroga alla regola generale della irrilevanza di ogni altra circostanza a effetto comune.

Il divieto di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante in esame violerebbe, dunque, il «principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto, attraverso una abnorme enfatizzazione della recidiva» (sono citate, ancora, le sentenze n. 251 del 2012, n. 205 del 2017 e n. 185 del 2015), ponendosi così in contrasto con il principio della proporzione della pena ex art. 27, terzo comma, Cost.

Infine, la disciplina censurata violerebbe il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., determinando l’assoggettamento alla medesima pena di condotte significativamente diverse in termini di offensività.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza di cui in epigrafe, il GUP del Tribunale di Grosseto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

2.– Non implausibile è il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente, relativo alla qualificazione come rapina del fatto contestato all’imputato nel giudizio a quo. Lo stesso rimettente argomenta tale qualificazione sulla base del carattere asseritamente irresistibile delle minacce proferite dall’imputato, determinanti come tali una coazione cui resisti non potest, e per mezzo delle quali egli avrebbe in effetti “sottratto” la somma di dieci euro ai dipendenti di un supermercato (sulla sufficienza della verifica di non implausibilità del presupposto interpretativo del rimettente nel giudizio di legittimità costituzionale, ex multis, sentenze n. 113 e n. 25 del 2023, n. 264, n. 254 e n. 203 del 2022).

Peraltro, anche qualora il fatto fosse qualificato quale estorsione – muovendo dall’opposta prospettiva secondo cui l’imputato, a mezzo di minacce di per sé non irresistibili (anche in considerazione delle specifiche circostanze di tempo e di luogo in cui l’azione ha avuto luogo), avrebbe “costretto” i soggetti passivi a consegnargli la somma di denaro in questione, nei termini dunque di una coazione meramente “relativa” – permarrebbe comunque per il giudice l’impossibilità, della quale egli si duole, di considerare prevalente sulla contestata recidiva reiterata la circostanza attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità, applicabile tanto alla rapina quanto all’estorsione, per effetto dell’art. 69, quarto comma, cod. pen.

Anche laddove il rimettente avesse optato per questa diversa ipotesi ricostruttiva, dunque, le questioni di legittimità costituzionale sollevate avrebbero mantenuto la loro rilevanza.

3.– Le questioni sono fondate.

3.1.– Nel dichiarare costituzionalmente illegittimo, per contrasto con i medesimi parametri oggi evocati, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevedeva il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., la recente sentenza n. 94 del 2023 di questa Corte ha rammentato tutte le precedenti pronunce – di cui anche il rimettente dà puntualmente conto – con le quali è stato ritenuto incompatibile con la Costituzione, e segnatamente con il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., il meccanismo del divieto di prevalenza di singole circostanze attenuanti rispetto all’aggravante della recidiva reiterata, riconducibile alla regola generale di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. (punto 8 del Considerato in diritto).

E in quella stessa sentenza si sono, altresì, passate in rassegna le diverse rationes decidendi sottese a quelle pronunce (punto 10 del Considerato in diritto), riconducibili a «una triplice direttrice» ma al tempo stesso «a principi comuni», e segnatamente all’esigenza di mantenere un conveniente rapporto di equilibrio tra la gravità (oggettiva e soggettiva) del singolo fatto di reato e la severità della risposta sanzionatoria, evitando in particolare quella che la sentenza “capostipite” n. 251 del 2012 già aveva definito l’«abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato» (punto 5 del Considerato in diritto) creata dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.

3.2.– Questa medesima ragione di fondo non può che condurre, anche nel caso ora all’esame, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale auspicata dal giudice rimettente.

L’attenuante del danno di particolare tenuità si applica, per espresso dettato normativo, ai delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio. Tra tali delitti assumono particolare rilievo prasseologico i delitti di rapina ed estorsione, caratterizzati da una pena minima edittale particolarmente elevata, pari a cinque anni di reclusione nelle ipotesi non aggravate; una pena minima che è essa stessa frutto di successivi interventi legislativi che hanno alterato le originarie scelte sanzionatorie del codice del 1930, determinando una «pressione punitiva […] ormai diventata estremamente rilevante», rispetto alla quale questa Corte ha recentemente invocato una «attenta considerazione da parte del legislatore, alla luce di una valutazione, complessiva e comparativa, dei beni giuridici tutelati dal diritto penale e del livello di protezione loro assicurato» (sentenza n. 190 del 2020, punto 7.2. del Considerato in diritto).

La latitudine dello schema legale dei delitti in parola, d’altra parte, fa sì che essi si prestino ad abbracciare anche condotte di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso oggetto del giudizio a quo) a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minimali di violenza (come una lieve spinta) ovvero, come ancora nel caso oggetto del giudizio a quo, nella mera prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi o di altro mezzo di coazione, che tuttavia già integra la modalità alternativa di condotta costituita dalla minaccia.

Anche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona –, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi.

Proprio in quest’ottica, del resto, la recentissima sentenza n. 120 del 2023 ha ritenuto costituzionalmente necessaria, con riferimento al delitto di estorsione, la previsione di una circostanza attenuante comune per i fatti di lieve entità. Questi ultimi sono essi pure riconducibili allo schema legale di quel delitto, ma – all’evidenza – non risultano meritevoli di un trattamento sanzionatorio che, nel minimo, il legislatore ha calibrato su una tipologia criminosa di significativa gravità; un trattamento però che, per la sua asprezza, risulterebbe manifestamente sproporzionato rispetto ai fatti meno offensivi, in relazione ai quali non può mancare una «valvola di sicurezza» (punto 7.6. del Considerato in diritto), che consenta al giudice di irrogare una pena meno afflittiva.

L’effetto “calmierante” di tutte le circostanze attenuanti – ivi compresa quella relativa al danno patrimoniale di particolare tenuità (art. 62, numero 4, cod. pen.) che viene in considerazione nel giudizio a quo – rispetto all’elevato minimo edittale previsto dal legislatore per i delitti di rapina ed estorsione è però destinato a essere sistematicamente eliso, allorché all’imputato venga contestata la recidiva reiterata – ciò che spesso accade nella prassi, rispetto a questa specifica tipologia di imputati –, e allorché il giudice ritenga di dover altresì applicare tale circostanza aggravante, in ragione delle accentuate colpevolezza e pericolosità dell’imputato, rivelate in particolare dal non essersi lasciato distogliere dal commettere ulteriori reati, nonostante l’ammonimento ricevuto con le precedenti condanne (sentenza n. 56 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto, e ulteriori precedenti ivi citati). In tal caso, infatti, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. non consente al giudice, salve le possibili diminuenti connesse alla scelta del rito, di commisurare una pena inferiore al minimo edittale, e dunque a cinque anni di reclusione; dovendosi al riguardo escludere – come giustamente sottolinea il rimettente – che il giudice sia tenuto a non applicare l’aggravante della recidiva, in presenza di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell’imputato, soltanto per evitare di dover irrogare una pena eccessiva rispetto al disvalore del fatto (ancora, sentenza n. 120 del 2023, punto 5.1. del Considerato in diritto).

Simili considerazioni, peraltro, valgono anche rispetto a tutti gli altri delitti cui può trovare applicazione la circostanza attenuante in esame. La particolare tenuità del danno patrimoniale causato determina, di regola, una sensibile riduzione del contenuto di disvalore dei reati che offendono il solo patrimonio, o che offendono – accanto ad altri beni giuridici – anche il patrimonio; e di tale ridotto disvalore il giudice deve poter tenere conto nella commisurazione del trattamento sanzionatorio, senza essere vincolato a ignorarlo in ragione soltanto della recidiva reiterata dell’imputato. Circostanza, quest’ultima, che nulla ha a che vedere con la gravità oggettiva e soggettiva del singolo fatto di reato, cui la pena – in un sistema orientato alla “colpevolezza per il fatto”, e non già alla “colpa d’autore”, o alla mera neutralizzazione della pericolosità individuale – è chiamata a fornire risposta.

Anche rispetto alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. si impone, pertanto, una nuova declaratoria di illegittimità costituzionale del meccanismo disegnato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., sulla falsariga di quelle che l’hanno preceduta, sì da porre in condizioni il giudice di non dover necessariamente irrogare una pena manifestamente sproporzionata al disvalore del singolo fatto di reato, in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

3.3.– Conseguentemente, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Il Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria l’11 luglio 2023